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Andrea Comotti: L’organigramma

L’organigramma, parte prima: El largo Adiós.

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Nicotrain è uno scrittore di gialli milanese. Nei suoi romanzi inventa soluzioni reali a casi polizieschi e giudiziari non ancora risolti. Ha successo, guadagna un bel po’ di soldi, e realizza il suo sogno: si compra una casa sul lago. Durante i lavori di ristrutturazione si accorge che dietro una falsa parete c’è uno scatolone di fotografie. Guarda. Riconosce. Il luogo, l’occasione, persino alcune facce: Piazza Fontana. Quel 12 dicembre. Nicotrain ricorda: c’era anche lui, quel giorno, arrivato sul posto subito dopo l’esplosione, richiamato dalle voci che già correvano. Di bocca in bocca. Di sirena in sirena, per le vie di Milano.

Andrea Comotti è nato nel 1947. Ha lavorato a lungo nell’editoria, di varia e scolastica. Nel decennale della morte di C. E. Gadda ha curato una mostra biobibliografica a lui dedicata e un’antologia, La Milano dispersa di C. E. Gadda, di brani gaddiani sposati a immagini coeve della città di Milano.

La copertina de L’organigramma riproduce un particolare di un quadro di Giuseppe Braga.

Vibrisselibri ha pubblicato la sola prima parte de L’organigramma. Ma l’intero romanzo, nell’adattamento di Lucio Angelini, è disponibile come audiolibro, pubblicato da Good Mood Edizioni Sonore. La scheda dell’audiolibro è qui: El largo Adiós (prima parte di L’organigramma), Nera Ruera in Danimarca (seconda parte). Interpreti: Mario Nutarelli, Claudio Migliavacca, Sergio Masieri, Olga Rossi, Alberto Mancioppi, Annamaria Mantovani, Anna Canzi, Sara Zoia, Walter Rivetti. Audio Editing e Sound Design: Dario Barollo e Matteo Buzzanca. Alla realizzazione dell’audiolibro ha partecipato anche Andrea Comotti, che ha allegramente raccontato qui l’avventura della registrazione, affidandosi alla voce narrante del suo personaggio.

Un grande noir fantastico sulla strage di Piazza Fontana

Nicotrain è uno scrittore. Scrive gialli che sono storie di cui ha «assaporato dal di dentro umori e colori e dolori anche». I suoi libri danno soluzioni reali a casi non ancora risolti. Uno scrittore che è un po’ investigatore e un investigatore che vuole raccontare.
Nicotrain realizza il suo sogno quando si compra una casa sul lago. Apre porte, esplora, misura. In un’intercapedine trova uno scatolone di fotografie. Guarda. Riconosce. Il luogo, l’occasione, persino alcune facce: Piazza Fontana. Quel 12 dicembre. C’era anche lui quel giorno, arrivato sul posto subito dopo l’esplosione, richiamato dalle voci che già correvano. Di bocca in bocca. Di sirena in sirena, per le vie di Milano.
Primi piani. Dal passato riemergono quei personaggi strani che lui stesso aveva notato.
Comincia la ricerca. Quelle foto sono state scattate da un gruppo di anarchici che della fotografia avevano fatto il loro organo di controinformazione. Avevano scoperto qualcosa.
Nicotrain viene a sapere che tutti i ragazzi, gli anarcofotografi, sono morti in circostanze più o meno strane. E in brevissimo tempo. Ascoltando racconti, inseguendo tracce, Nicotrain fa emergere verità troppo a lungo occultate.

El largo adiós è la prima delle tre parti che compongono L’organigramma. Un grande romanzo fantastico su piazza Fontana che, nella ricerca di una soluzione mai trovata, desiderata e immaginata, restituisce il colore le voci e il sentire di quegli anni. E si avvicina alla realtà forse più di tante inchieste e indagini. Restituisce non solo, e non tanto, ciò che quegli anni sono stati, ma ciò che sono diventati nei racconti di molti. La realtà, attraverso la memoria e la ricerca, si mescola con la fantasia in un impasto che sa di mito, di immaginario, di storie tramandate e di verità sfiorate.
Ma gestire la forza dell’evocazione del racconto spetta alla parola, capace di fermare sulla pagina tutta la potenza del romanzo. Comotti prende le parole e le scolpisce, le stiracchia, le accartoccia, le plasma con la precisione e l’acume di chi lavora di cesello. Sulla scia di un espressionismo lombardo che tanto deve a Carlo Dossi, dove ciò che conta è il modo di raccontare. Uno stile capace di procedere oltre la «sola cura delle parole» e «la sapiente distribuzione dei periodi», di proporsi come un tutto armonico. «Ché la forma è il suggello, è la solissima cosa che ci permetta di dire “questo libro è mio”». E questo è quanto fa Comotti, operando sullo stile e su un lessico che pesca tra lombardismi, arcaismi, latinismi, calchi poetici e in particolare danteschi, locuzioni popolaresche e storpiamenti.
Un po’ come Faldella che, parlando di sé, si definisce «uno che nello scrivere italiano congiungeva reminiscenze contadine della sua schiavandaia colle nuove preziosità del Giusti, e radunava in una sola secchiata tutta la latteria classica linguaiola che egli emungeva dal Boccaccio, dal Cecchi e dal Cesari. Aveva intagliato una scaletta alfabetica ai margini di un suo zibaldone, dove andava riponendo le frasi e le sentenze da ritenersi».
Poiché «noi crediamo, che solo lo stile scampi un autore dalla comune morte dei libri, l’oblio» (Carlo Dossi).

Nota biobibliografica dell’autore (a cura dell’autore)

Andrea Comotti ha passato l’infanzia a Novate Milanese (è nato nel 1947 nell’ospedale del paese vicino), l’adolescenza a Como fino alla maturità classica, la maturità vera l’ha toccata nella Milano amo-et-amo, lavorando doppio (nell’editoria, correttore prima redattore poi, per tirare a casa la michetta, nel sessantotto da militante anonimo ma anastigmatico per saggiare quanto sa di vero sale l’utopia) e studiando la metà (quel tanto che bastava a rinviare sine die la tesi acquolinata titillata silhouettata sull’amatissimo Gadda). (Si è rifatto professionalmente e affettivamente curando la mostra biobibliografica nel decennale della morte del Gran Lombardo e un’antologia, La Milano disparsa di C.E. Gadda, Garzanti, di brani gaddiani sposati a immagini della meneghinità di allora). Robespierrata la militanza sessantottina per il frustrante differenziale tra incipit-poesia e explicit-prosa(icità) e anche e soprattutto (la verità innanzitutto) per una pressante crisi di creatività individuale dopo tanta collettivite, ha abboccato agli zufoli di una sirena ancor più possessiva, la scrittura (da Gadda la licenza di osare), incassettando in trent’anni la bellezza di una terna di inediti. Lo stile a farla da tarlo torquemada della stilo (la montblanc diplomatique battistrada del mac). Da rabdomantare non il cosa mettere nero su bianco (generosi per fortuna il sacco della vita e la sporta della sua cognizione), il come… il benedetto idiolettico come… come dire ammannisci la parte e imbandiscila con arte, che è poi suppergiù scrivi come mangi, e il piatto appetito da un comune lombardo non è che la cassoeula. Smagata con il tempo e con le rughe Milano odi-et-amo, si è via via centrifugato nella periferia (Sesto, Cinisello) con la voglia in secco e la speranza altamarea di lasciarsi invecchiare in riva al mare, Tirreno diovolendo, latitudine etrusca diopiacendo.

Rassegna stampa su questo libro:

Recensione in Bloomriot. Leggi.
Recensione in Mangialibri. Leggi.
Recensione in La poesia e lo spirito. Leggi.

Una recensione

La poesia e lo spirito, 27 luglio 2007.
di Elena F. Ricciardi

La strage di Piazza Fontana avvenne il 12 dicembre 1969, provocando la morte di sedici persone ed il ferimento di altre ottantotto. La bomba esplose alle 16.37; lo stesso giorno venne scoperta un’altra bomba, fortunatamente inesplosa, nella sede di Milano della Banca Commerciale Italiana: venne fatta brillare subito dopo, occultando così una prova importantissima che avrebbe forse permesso di risalire a chi aveva preparato gli ordigni.

A Roma, sempre lo stesso giorno alle 16.55, una bomba esplose nel passaggio sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro che collegava l’entrata di via Veneto con quella di via San Basilio, provocando tredici feriti. Altre due esplosero a Roma tra le17.20 e le 17.30, una davanti all’Altare della Patria e l’altra all’ingresso del museo del Risorgimento, in piazza Venezia, facendo quattro feriti. In sostanza 5 attentati terroristici nel pomeriggio dello stesso giorno, tra il primo e l’ultimo un lasso di tempo di soli 53 minuti. Da notare che alle 16.37 l’orario di chiusura della banca era trascorso, ma all’interno vi erano molte persone.
Queste le scarne notizie della cronaca di uno degli episodi più neri della storia d’Italia degli ultimi quarant’anni. Su questo nodo, groviglio, garbuglio o gnommero, come direbbe l’idolatrato Ingegner Gadda, si costruisce L’organigramma, il noir di Comotti che, in onore al suo maestro, ci regala una lettura in cui la capacità di usare diversi registri stilistici, differenti linguaggi, dai dialetti comasco, milanese, napoletano, a un italiano alto ma anche infarcito di neologismi, giochi di parole, dai latinismi agli arcaismi, senza farsi mancare arabeschi di assonanze, allitterazioni, torsioni acrobatiche della lingua, potrebbe bastare da sola a trasportarci in un mondo dove la parola intesa come suono in relazione ad altri suoni è un labirinto nel quale perdersi, cercarsi e ritrovarsi. Il labirinto in cui ci troviamo però, proprio in quanto labirinto, è fatto anche di altri livelli, quello più propriamente relativo allo svolgimento delle indagini del protagonista, tale Nicotrian, al secolo Nino Rota, omonimo del musicista – «Chi è che non lo ricorda in binomio siamese con Fellini?», – così chiamato dagli amici per la stazza da peso massimo che a suo dire non si adattava al nome Nino, «che dava l’idea del mingherlino» e per altre ragioni quali il fumo e un certo amore musicale per cui
«da questo connubio di amori, nicotina più Coltrain era sgorgato dal cuore e dal fegato degli amici il nuovo appellativo, doppiamente azzeccato, le pall le fumava davvero al ritmo di un treno e Train era il soprannome che i jazzofili avevano affibbiato a (Col)Train per le note celeri concatenate nelle classiche lenzuola sonore, ma c’è chi più musically correct, candida il train non da rotaia ma da allenamento iperperfezionista, otto ore filate come a tirare di lima, a costruire al meglio di sé la propria maestrità. Già che ci siamo, è il caso prima di omerodormiare ancora, di ultimare la carta d’identità di Nicotrain. Nato l’11 settembre 1947, lo stesso giorno e mese del mafioso-maialo-macellaro colpo di stato in Cile, del sacrilego bombardamento terra-cielo del palazzo presidenziale della Moneda, circostanza astrale che forse aveva ingenerato in Nicotrain fin dai primi vagiti o poppate che fossero un’avversione pulsante e fibrillante per ogni miasma di dittatura fascista o fascistoide o stalinistoide, c’è libertà di scelta, ma anche di riflesso un’insofferenza puntuta per ogni sintomo di democrazia plasmonicamente arrogante, quella beceronarcisista e invadente che mostra i muscoli ai renitenti alla conversione ai suoi usi e costumi, quella vagamente imperiale che mal metabolizzando Trotskji e men che meno il Che la pensa bene di volersi esportare a forza come modello apollineo in ogni angolo anche infimo del globo. Stato civile non divorziato ma nemmeno più coniugato…».
Questo un assaggio della capacità affabulatoria dell’autore che incanta il lettore in digressioni come scatole cinesi dalle quali si riemerge sempre un po’ storditi e col senso dell’urgenza di capire quale sia il filo che dipanerà, se dipanerà, l’intero “gnommero”, che, partito dal ritrovamento fortuito di un’intercapedine nel muro della nuova casa del protagonista e di una scatola incerottata e incellofanata all’interno dell’intercapedine, contenente a sua volta strane foto di persone che gravitavano, nel giorno dell’attentato, nei paraggi della banca – persone che riemergono a loro volta da recessi profondi della memoria del protagonista ( una memoria colabrodo che però ha stranamente immagazzinato un particolare degli attimi concitati del dopo esplosione) – si srotolerà e riarrotolerà in un racconto in cui alla storia concitata e ingarbugliata esplosa in piazza fontana si sovrapporrà la storia dell’uomo, in un rincorrersi e accostarsi di memorie fra flash-back e ritorni al presente e in cui la molteplicità dei piani ci riporta alla sfida alla fortezza di calviniana memoria:
«Se riuscirò col pensiero a costruire una fortezza da cui è impossibile fuggire, questa fortezza pensata o sarà uguale alla vera- e in questo caso è certo che di qui non fuggiremo mai ma almeno avremo raggiunto la tranquillità di chi sta qui perchè non potrebbe trovarsi altrove-, o sarà una fortezza dalla quale la fuga è ancora più impossibile che di qui- e allora è segno che qui una possibilità di fuga esiste: basterà individuare il punto in cui la fortezza pensata non coincide con la vera per trovarla» (I.Calvino, Ti con zero).
Il gioco multistrato del testo allora sembra una sfida a comprendere, il linguaggio con le sue possibilità combinatorie infinite, la storia con le sue menzogne e le sue verità mai perfettamente separabili e riconoscibili, e soprattutto, la vita con le sue illusioni e disillusioni, i suoi sogni realizzati e quelli ancora da realizzare.

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