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In Una tragedia negata Demetrio Paolin compie un’approfondita analisi sulla narrativa ispirata agli anni di piombo. Sono due, in particolare, i fili conduttori che legano i testi presi in esame in questo saggio. Due aspetti nodali che l’autore ha individuato, portato alla luce e sui quali ci invita a riflettere: l’assenza della figura del nemico e la conseguente negazione della cifra tragica nei sanguinosi eventi che caratterizzarono il periodo in questione. In tutti i libri che Paolin analizza la scelta della lotta armata viene declinata all’interno di un ambito familiare, quasi a voler annullare o «disinnescare» la violenza contenuta in quei fatti di sangue. Il suo saggio, infatti, prende le mosse da un’analisi approfondita del rapporto tra “padri” e “figli”. Padri, che in alcuni casi si rivelano ex partigiani, e figli che hanno optato per la vita clandestina dei brigatisti.
Lo sguardo gettato sull’esperienza terrorista da questi romanzi, sostiene Paolin, è sempre sghembo, indiretto «quasi che con una visione frontale ci si possa ferire», e le azioni criminose sono giustificabili dalle circostanze. La violenza vera non è mai quella «agìta ma quella subìta». E le quattro mura familiari, la dimensione privata entro cui gli scrittori ritraggono i protagonisti dei loro romanzi rendono, come osserva l’autore di Una tragedia negata, più “accettabile” e meno “minacciosa” la realtà di sangue in cui i terroristi sono immersi, cancellandone però ogni valenza tragica.
Nel suo saggio, Demetrio Paolin ripercorre gli eventi più cruenti ed efferati degli anni di piombo, a partire dalla strage di piazza Fontana passando per quella alla stazione ferroviaria di Bologna e concentrandosi sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro.
L’autore non trascura di prendere in considerazione la funzione mimetica di alcuni tra i film più significativi sul tema del terrorismo – Buongiorno notte e La meglio gioventù, ad esempio – e la deflagrante potenza espressiva di Sciascia e di Pasolini che, proprio perché non nega la “tragedia”, fa da contraltare all’ “autocensura” presente nei romanzi da lui studiati.
Paolin osserva che «la letteratura italiana non ama la tragedia, non è nelle sue corde […]. I testi che abbiamo preso in esame condividono questa caratteristica: ti portano al limite del tragico e poi si arrestano, spaventati di andare contro la propria stessa identità».
Ed è, dunque, precisamente questo che fa Una tragedia negata: restituisce ai fatti di sangue di cui si è macchiato il terrorismo la dignità di tragedia, chiama le cose con il loro nome, colma un “lapsus” calami. E si pone, di conseguenza, come lettura indispensabile per chiunque abbia intenzione di affrontare un’analisi completa del terrorismo rosso e nero così come viene raccontato nella maggior parte dei romanzi italiani.
Dal web alla carta. Una tragedia negata è ora disponibile anche su carta, nell’edizione (ampiamente riveduta e aumentata dall’autore) pubblicata nel gennaio 2008 da Il Maestrale.
La scheda del libro nel sito de Il Maestrale.
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Demetrio Paolin, classe 1974, vive a Torino. Ha lavorato come giornalista, addetto stampa e sindacalista. Ha pubblicato il romanzo Il pasto grigio presso Untitled Editori e il romanzo Il mio nome è Legione presso Transeuropa.

Demetrio Paolin durante una conferenza all'Università di Pisa.
Le recensioni del Corriere e del Giornale
Corriere della sera, 28 novembre 2006
Anni di piombo e romanzi / Il peccato è lo stile, non l’ “intimismo italico”
di Paolo Di Stefano
“Winston stava sognando la madre. Doveva avere dieci o undici anni, pensò, quando sua madre era scomparsa”. Anche un romanzo “politico” per eccellenza , come 1984 di Gorge Orwell, contiene squarci familiari pieni di dolore: “Il ricordo di sua madre gli straziava il cuore”. Era il tempo del Grande Fratello. Orwell, nella sua pur profetica lungimiranza, non poteva prevedere la pratica compulsava del “cliccare”. Ed è proprio cliccando che il Piccolo Fratello è andato a scovare un libro di Demetrio Paolin intitolato Una tragedia negata, che analizza il rapporto tra microstorie privata e macrostoria collettiva nella narrativa italiana sugli anni di piombo. Il saggio di Paolin è interessante anche dal punto di vista editoriale, essendo reperibile solo ondine (editore vibrisselibri, di Giulio Mozzi), in attesa che possa interessare a qualche casa editrice vecchio stampo, cioè a stampa.
La tesi del libro, che si innesta nelle discussioni di questi giorni sulla memoria degli anni 70 (vedi l’articolo di ieri di Pierluigi Battista in questa pagina), viene ben illustrata da Filippo La Porta nell’introduzione: nei molti romanzi che narrano il terrorismo si assiste ad una radicale rimozione della tragedia.
Tesi che poggia su una vecchia convinzione di Cesare Garboli: “L’Italia ama recitare, cantare, far ridere, e solo all’occorrenza, per gioco, far piangere…”. Tesi affascinante, sostenuta però da un’argomentazione singolare riscontrata nei singoli testi: i romanzi di Culicchia, Villalta, Doninelli, Arpaia, Baliani, eccetera eludono la tragedia, si ritraggono di fronte ai cadaveri, adottano un punto di vista “particolare”. Si tratterebbe per lo più di romanzi intimisti o nei casi migliori familiari, con tutta l’ambigua umanizzazione dei criminali che ne consegue. Va detto intanto che gli scrittori studiati da Paolin appartengono in maggioranza a generazioni più giovani rispetto a quella che ha vissuto in diretta gli scontri: e questo non sarà un fatto secondario. Le domande che non trovano risposta nel libro rimangono però numerose.
Chi può dire davvero, dopo l’analisi di una ventina di romanzi, che “la letteratura italiana non ama la tragedia, perché ‘ci sono perfino degli aspetti comici nella capacità italiana di far convivere il carnevale con la tragedia’”? Perché mai il “fuoco della controversia”, come lo battezzò Mario Luzi, essendo vissuto e sofferto dal privato (e per di più a qualche distanza generazionale) dovrebbe rivelare necessariamente una prospettiva “riconciliata” o, peggio, carnevalesca?
Chi lo dice poi che il Donat Cattin in vestaglia che compare ne L’Italia nichilista di Corrado Stajano (sulla parabola che condusse al terrorismo il figlio Marco) sia il sintomo dell’”assoluta mancanza del tragico”? Sembra questa, aggiornata alla letteratura, la stessa obiezione che nacque a proposito della presunta “chiave intimista” adottata da Marco Bellocchio in Buongiorno notte, il film sul caso Moro. Altra questione: perché mai questo punto di vista dovrebbe essere solo italiano?
(Non sarà l’eterno cliché sulla nostra identità “infantile”…?)
E se così fosse, come può Paolin riconoscere in Sciascia, Ortese e Pasolini quel “senso di tragico” che verrebbe sistematicamente eluso dal nostro carattere nazionale? Non sarà che in essi le ragioni morali si fanno valere meglio grazie a un più solido tessuto stilistico (che in letteratura dovrebbe pur contare qualcosa)?
Nel 1987 uscì un romanzo intitolato La brava terrorista: era la storia di Alice Mellings, che preparava la minestra per i compagni militanti a ritorno da un attentato. Si disse giustamente che in Alice mancava ogni potenzialità tragica: pochi dissero che era solo un libro non riuscito. L’autrice si chamava Doris Lessino, nata in Iran, vissuta in Rhodesia e poi per trent’anni in Inghilterra. Mai in Italia. Come, del resto, il povero Wiston, vittima, in Oceania, del Grande Fratello.
Il Giornale, 5 gennaio 2007
Anni di piombo / Quando il romanzo è più della cronaca
di Luca Telese
Prescriptum: la prima cosa da dire del libro di cui stiamo per parlarvi è che è un libro che nessuno può comprare ma che chiunque può avere a patto che possieda un computer. Di più, forse è il primo di una nuova generazione di libri scritti, editati e confezionati e messi in rete via Internet a disposizione di chiunque. E dunque la prima cosa che dovete sapere è che quest’idea un po’ pazza che finora non era riuscita a nessuno, quella di trasformare i libri in un patrimonio digitale e internautico, è stata messa in atto da Giulio Mozzi e il suo sito vibrisselibri.net. Il primo di questi libri un po’ strani, un po’ transgenici si intitola Una tragedia negata e lo ha scritto Demetrio Paolin. È un saggio in attesa di lettori, ma anche di editori.
Finite le dovute precisazioni, si può parlare di questo libro che poi è un saggio letterario tutto particolare sugli Anni di piombo visti dall’unica prospettiva da cui ancora non erano stati osservati: quella della critica letteraria sulla narrativa.
Il libro di Paolin, insomma, è una sorta di ipertesto, un’ispezione ai raggi X che prova a raccontare la lotta armata e la violenza degli anni Settanta sbirciando dal buco della serratura di chi ha già scritto scandagliando romanzi, saggi, reportage, inchieste, autobiografie e testimonianze come un motore di ricerca. Una tragedia negata è insomma allo stesso tempo la forma di scrittura più antica e più moderna per indagare una delle pagine più controverse della nostra storia: da un lato ha il passo lento e metodico della filologia, dall’altro il principio base della rete, quella che l’interconnessione dei reperti produce conoscenza. Scrive Paolin nel sottotitolo: «Il racconto degli Anni di piombo nella narrativa italiana». E poi aggiunge in ex ergo una frasetta del Dialogo di Tristano e di un amico di Giacomo Leopardi: «Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo».E dunque, in questa confezione così raffinata, così paleomoderna, con i crediti degli editors subito dopo i titoli, Paolin infila una tesi netta, forte che qualcuno potrà anche contestare, ma che sicuramente è ben documentata e non meno interessante. Secondo il giovane critico, infatti, i libri e i romanzi ci dicono più della cronaca, raccontano più delle sentenze, spiegano più delle verità provvisorie e fragili che ci sono state consegnate dal nostro passato prossimo. E ci dicono ad esempio che le scritture degli ultimi due decenni – tutte – non hanno fatto altro che edulcorare, sdrammatizzare, rimuovere. Edulcorare la violenza, sdrammatizzare la realtà, rimuovere la memoria.
Certo, qualcuno dirà che il campione non è completo (molti libri sono usciti dopo la scrittura del saggio), qualcun altro aggiungerà che non è omogeneo, che somma cose diverse, pere e mele, che mette sullo stesso piano autori contemporanei e giovanissimi, che unisce le biografie e le scritture fantastiche in un unico oggetto di indagine. È vero. Però, l’idea forza del libro è potente e anche la capacità di cogliere il dettaglio. Ad esempio la notazione che in un libro forte come L’Italia nichilista di Corrado Stajano (Einaudi) il dramma del terrorismo è trasfigurato in un «dramma borghese». Ed aggiunge infatti Paolin: «I fondali non sono la piazza, l’università occupata, la sede dei gruppi extraparlamentari, il covo di qualche cellula terroristica, ma le carte da parati costose, il parquet di legno pregiato, i mobili, i tappeti». E aggiunge: «Gli attori che vi partecipano non hanno passamontagna calati sul viso, non alzano la mano mimando il simbolo della P38, ma indossano vestaglie di lusso, sono in pantofole e parlano all’amico del figlio».
Per chi non lo ricordasse, il libro di Stajano racconta la storia di Marco Donat Cattin, terrorista di Prima Linea, ex militante di Lotta Continua, ma soprattutto figlio di uno dei più importanti leader democristiani. E ha ragione Paolin, il leader in vestaglia è davvero il simbolo di un minimalismo che allontana sempre il peso della tragedia dalla narrazione degli Anni di piombo.
La vestaglia di Donat Cattin è il simbolo della grande rimozione, di ciò che non si vuol dire, così come lo sono nel film di Bellocchio Buongiorno notte i canarini accuditi amorevolmente da Prospero Gallinari nel covo delle Brigate Rosse o i panni stesi e le faccende domestiche di Anna Laura Brachetti. E si potrebbe continuare con Il passato davanti a noi di Bruno Arpaia (Guanda) in cui i due protagonisti, quando parlano della lotta armata, affollano la loro conversazione di eufemismi in cui la scelta della clandestinità viene sostituita dal giro di parole «pochi, pochissimi, hanno deciso di fare come Angelo». Ed ancora: «Ma di che cosa parla?». E la risposta: «Di quando papà e mamma erano giovani».
Uno, due, tre, dieci esempi citati da Paolin funzionano come la raccolta degli indizi sulla scena del crimine. Le pagine dei nostri narratori e soprattutto le testimonianze degli ex protagonisti (in particolar modo gli ex terroristi) appaiono all’esame del critico letterario come una scena del delitto «ripulita» dalle prove all’ispettore di polizia. Paolin insegue i dettagli e ovviamente rimane colpito da Terroristi brava gente di Sergio Lambiase, che quando parla di un covo sembra che descriva il calore di una camera da letto: «Cercò anche da qualche parte le sue ciabatte e non trovandole, quella sua sensazione piacevole e tattile, che conosceva bene delle mattonelle calpestate a piedi nudi, come in una casa estiva, seguendo la danza del sole sul pavimento».
È davvero curioso che un critico letterario debba scoprire ciò che il nostro Paese ancora non riesce a capire. E cioè che quei dettagli scomparsi dalla scena del delitto sono esattamente la sostanza della nostra rimozione collettiva. Mancano le pistole, manca la polvere da sparo, manca il sangue, le morti sono sempre velate, le vittime trasfigurate, i cadaveri cancellati dalle dissolvenze e gli spari, le coltellate, l’armamentario dell’assassinio e dell’omicidio, eclissati nelle paroline di scorta.
Alla cruda verità, si preferisce la scrittura delle emozioni.
Ed ecco perché allora, appena finito di leggere questo articolo potete fare una cosa molto semplice. Andare sul sito di Mozzi, scaricare il libro di Paolin, entrare in rete e magari scoprire una piccola grande verità. Certo, di questi tempi non è poco.
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Demetrio Paolin, classe 1974, vive a Torino. Ha lavorato come giornalista, addetto stampa e sindacalista. Ha pubblicato il romanzo Il pasto grigio presso Untitled Editori e il romanzo Il mio nome è Legione presso Transeuropa.